Abbiamo tutti presente Sigmund Freud e in molti anche la sua immagine: sguardo intenso, sigaro in bocca o deliziosi occhialetti tondi, barba candida e curata e qualche accenno di calvizie.
Leghiamo il suo nome a quello di Edipo e sappiamo con certezza, grazie a lui, che tutti i nostri problemi vengono da nostra madre o nostro padre; sappiamo anche che quando ci capita di dire un nome per un altro, o ci sfugge la parola “coltello” al posto di “tavolo probabilmente non è un errore del tutto involontario.
Alcuni di noi avranno anche sentito parlare dei suoi immensi e immersivi studi sulle sue doti psicoattive della cocaina,
ma lo conosciamo, di fatto
in quanto padre della psicanalisi.

Nella seconda metà dell’800 Sigmund Freud si trova ad assistere alcune donne coi sintomi più svariati: spasmi, cecità, svenimenti, paralisi, ma anche un’eccessiva loquacità, eccitazione, un carattere troppo ribelle o scelte di vita poco consone e immorali. La diagnos è sempre la stessa:
isteria.
A quel tempo l’isteria era giudicata una malattia causata dall’utero e i rimedi erano i più vari: dal riposo, meglio se in luoghi chiusi a chiave, al massaggio pelvico per cui era esclusa l’autosomministrazione, fino all’isterectomia – la rimozione dell’utero.

Freud ha un’intuizione geniale: decide di smettere di osservare le sue pazienti e iniziare ad ascoltarle.
Domanda e cerca risposte, soprattutto là dove le sue interlocutrici non vogliono andare. Indaga le assenze, i silenzi e cerca di farsi spazio attraverso le rimozioni. Sono luoghi difficili quelli in cui cercano di penetrare, parole che fuori da quello studio preferirebbero non sentire e avvenimenti di cui sia lui che loro inorridiscono.
Molte avevano subito violenze infantili e la maggior parte di esse era stata praticata da padri, zii, fratelli o persone comunque vicine alla sfera famigliare delle bambine.
Fu una scoperta sensazionale: una malattia del corpo, l’isteria era causata da un segreto. Una piccola storia taciuta a sua volta inserita nella grande Storia che incatenava insieme tutti quei silenzi.
Quello che rimane tra il medico e la donna è un grosso fardello, un trauma dal greco tarami forare, trapassare, trapanare; che evidenzia come il FUORI può penetrare nel  DENTRO.

Il mondo si riversa sulla storia di bambine, ragazzine e donne.
Le violenze subite si agitano, la società le comprime. Il FUORI e il DENTRO comunicano intensamente.

Conscio della portata delle sue scoperte il giovane Freud si presenta, con tutte le sue analisi e suoi studi, al convegno annuale della società dei medici di Vienna. Davanti ai migliori dei suoi colleghi inizia a illustrare le sue scoperte. Le sue parole, come è ben consapevole, puntano il dito dritto sui padri, svelano crepe tra le mura familiari. Prendere atto dei suoi studi significherebbe perdere il conforto della pace (apparente) tra mogli e mariti, tra padri e figlie, dottori e pazienti. Significherebbe mettere in dubbio l’intero equilibrio sociale.
E i mariti, i padri, i dottori non la presero bene.

Dopo la presentazione il presidente della società dei medici si alzò con serafica calma e sorridendo disse:
“Bene. Questa sera lei ci ha raccontato delle bellissime favole scientifiche”.
Chiudendo la porta in faccia a tutte le considerazioni e rivoluzioni che avrebbero potuto seguire quella serata. Favole. Così chiamò le verità che gli venivano poste davanti.

Freud avrebbe forse potuto continuare a lottare a fianco delle sue interlocutrici, avrebbe potuto continuare a scavare in quella direzione e ascoltare le parole che altri non avevano voluto sentire. Avrebbe potuto, volendo, voltare le spalle alla crème degli intellettuali viennesi per prendere posto accanto (e non sopra o davanti) a tutte quelle donne che avevano condiviso con lui la propria storia e che adesso erano desiderose di continuare a parlare.

Avrebbe potuto. Ma non lo fece.

Riscrisse, invece, la sua teoria.
Usò l’immaginazione e lasciò ai posteri un modello complicatissimo e immenso, pieno di simboli, trappole e trabocchetti. Pieno di favole (per l’appunto). In breve: scrisse che le violenze di cui bambine (e bambini) erano state testimoni erano solo fantasie. Tutte inventate dalle menti perverse delle sue pazienti, non più interlocutrici.
Chiuse anche lui la porta al mondo, sbarrò i fori che poteva creare nella sua società e ricacciò tutto dentro il paziente, nel suo piccolo universo privato.
Non più la comunità ma uno solo, non più il fuori ma il dentro.

Quando Dora lasciò lo studio di Freud, consapevole che lui non la stesse più ascoltando ma la stesse solo interpretando secondo un metodo e una scaletta già scritta, la parola tornò ai padri ai mariti e ai dottori.
E ai suoi sintomi.

Da dove viene il nostro dolore? Da fuori o da dentro?

 

Questo è un breve scritto a cui tengo molto perché spero sarà parte di grandi percorsi.
Qui, si incontrano alcuni dei nodi che sto attraversando (o che mi stanno attraversando) in questo periodo.
Uno di questi nodi è una ricerca che sta iniziando a far capolino grazie all’aiuto di alcune meravigliose amiche e ai laboratori di Inside the body, progetto di Isabel Farina. Vi consiglio di andare a curiosare nella sua pagina Facebook e di ciacciare tra i post, le attività e alcune autoproduzioni.
Poi c’è un’idea che sta sollazzando le nostre testoline curiose all’interno di Anomalia Teatro ancora non sappiamo bene cosa potrebbe diventare ma intanto iniziamo ad indagare e a raccogliere racconti, immagini, frammenti e foglioline dagli alberi.
Infine, questo lavoro nasce da lunghe discussioni insieme a Pietro, che fa lo psicologo ma non vuole che si dica. Tra queste righe c’è anche la sua implacabile mano.

Grazie
per gli intensi momenti che mi state regalando.