Cassius Clay, poi Muhammad Ali, nasce nel 1942, a Louisville – Kentucky.
Suo bisnonno era uno schiavo, suo nonno un assassino e il padre meraviglioso – tranne quando beveva, cosa che succedeva spesso.
La schiavitù, abolita nel 1863, è cosa tangibile,
il ricordo continua a scorrere nel corpo
e la sua traccia rimane concreta nei nomi che ti porti addosso
generazione dopo generazione.
Il cognome Clay è quello, appunto, del bisnonno: John Henry Clay
di proprietà di Hanry Clay
– un nome come marchio a fuoco sulla pelle
senatore del Kentucky.
Henry Clay, come uomo politico, si dichiarò contro la schiavitù
e ancora più ferocemente si schierò suo figlio
Cassius Clay (da cui il giovane pugile prende il nome)
entrambi – possessori di schiavi.
Louisville viene descritta, dai giornalisti dell’epoca
come un buon luogo per essere neri
lì, il razzismo pare manifestarsi in misure più delicate che in altre città:
d’altronde non sembrano esserci particolari sommosse, né linciaggi.
Certo, i neri continuano a non poter frequentare le stesse scuole dei bianchi
o gli stessi ristoranti,
non hanno accesso alle stesse cure sanitarie
i loro lavori sono quelli più degradanti, pericolosi e meno retribuiti
ma ehi… possono comunque restare in vita!
A patto, chiaramente, di mostrarsi passivi
e grati
per questo magnifico privilegio
dono della supremazia bianca.
Cassius Clay ha dodici anni quando gli vengono mostrate le foto
del cadavere
di Emmett Till
quattordicenne nero, morto ammazzato di botte
linciato.
Il ragazzino, che veniva da Chicago, era andato a trovare i suoi parenti nel Missisipi
e lì, era entrato per sfida in un supermercato
rivolgendosi ad una cassiera
bianca
con: “ciao, tesoro”.
Qualche giorno dopo, il marito della donna e un suo compagno,
entrano nella casa dove Emmett dormiva
lo tirano fuori dal letto
lo prendono a pugni, lo pestano con il calcio della pistola
gli ringhiano,
bava alla bocca,
di chiedere scusa per aver parlato con la donna bianca.
Emmett Till è un ragazzino, il suo corpo è irrigidito dal dolore e dalla paura
ma non si scusa.
Gli sparano dritto in testa.
In tribunale, una giuria composta esclusivamente da uomini bianchi
impiegherà solo 67 minuti per assolvere i due assassini:
“Se non ci fossimo fermati per una bibita non ci avremmo messo tanto”.
La madre deciderà di dare una cerimonia pubblica, a bara aperta
per mostrare a tutti quello che avevano fatto a suo figlio:
il ragazzo era stato torturato, gli avevano cavato un occhio prima di ammazzarlo
e avevano poi gettato il cadavere nel fiume legato con il filo spinato ad una ginnatrice
strumento per la lavorazione del cotone.
La foto di quel viso venne pubblicata su Jet, ed Elmett divenne uno dei simboli
nelle lotte degli attivisti neri.
Il mondo di Cassius Clay è questo:
un mondo di reti, barriere, limiti
di assassinii, linciaggi, sputi e umiliazioni.
Benvenuti nell’accogliente America.
Il padre, un groviglio di simpatia frustrazione e violenza
lo guarderà negli occhi un giorno
e sospirando condividerà con lui una delle sue profonde verità:
“i soldi sono l’unico modo per ottenere uguaglianza e rispetto”.
E Cassius lo prende in parola: vuole più soldi,
sogna Cadilac rosa e conti in banca infiniti.
Vuole diventare famoso e vergognosamente ricco
ma ancora non sa come.
A dodici anni gli rubano la bicicletta che divide col fratello.
Va su tutte le furie, è agitato e arrabbiato
corre avanti e indietro cercando qualcuno che lo aiuti a trovarla.
Finisce in uno scantinato.
Lì, il poliziotto Joe Elsby Martin allena un gruppo di ragazzetti
bianchi e neri
alla boxe.
Il sudore nell’aria, i colpi dei pugni sui sacchi, i corpi contro altri corpi
e tutta quella aggressiva energia
travolgono il ragazzino
che sgrana gli occhi
e per qualche secondo, dimentica tutto.
Poi inizia a borbottare che vuole trovare il ladro della sua bicicletta
che gli vuole dare una bella ripassata
e se lo prende gliela farà vedere lui.
L’allenatore lo guarda e gli chiede soltanto:
“Sai combattere?”.
Da quel giorno Cassius Clay scopre il pugilato e la sua potenza.
Corre tutte le mattine da casa a scuola facendo a gara con l’autobus
inizia a mangiare quantità enormi di latte, uova e pollo
giura a sé stesso che starà sempre lontano dalle bevande gassate, dall’alcol e dalle sigarette,
combatte più incontri possibile
e urla che presto diventerà il campione dei pesi massimi del mondo.
Quando sale sul ring la prima volta
vince
ma di poco.
Nessuno avrebbe potuto intuire quello che sarebbe diventato
era “semplicemente normale”.
Ma Cassius Clay di normale non aveva niente
in un mondo in cui veniva imposto ai neri
di essere docili per sopravvivere
di sorridere e ringraziare
lui già rompeva gli schemi con spavalderia e arroganza
si definiva grazioso
si è mai sentito un pugile definirsi grazioso?
si definiva bellissimo
si è mai sentito un nero definirsi bellissimo?
bussava nelle case per annunciare i suoi incontri
e continuava a gridare e a correre
senza abbassare la testa:
a dodici anni volevo diventare una celebrità, volevo diventare famoso in tutto il mondo
così mi sarei potuto ribellare, sarei potuto essere diverso dagli altri e mostrare a chi mi seguiva
che non dovevi fare lo zio Tom
che non dovevi per forza baciare tu-sai-cosa per farcela
volevo essere libero. Libero di dire ciò che volevo… andare dove volevo.
Fare ciò che volevo.
La voglia di sapere di più su Muhammad Alì è nata ascoltando il podcast A pugni chiusi di Riccardo Gazzaniga, di Storie Libere che potete ascoltare QUI.
Il materiale di questo brevissimo articolo l’ho trovato sul libro Muhammad Ali, la vita di Jonathan Eig, edito da 66than2nd e che potete acquistare QUI.
Consiglio anche il documentario di RepTV Da Clay ad Ali. La metamorfosi, e che potete guardare su YouTube cliccando QUI.